COMPRENDERE, CAPIRE, SPIEGARE. COSA SIGNIFICA FARE GIORNALISMO, QUELLO VERO

GREEN SKILLS. LE NUOVE PROFESSIONI DELLA SOSTENIBILITA'

di Filippo Riccardo di Chio, studente del Master di Giornalismo Università IULM

 

Lavori verdi, fattore ESG (environment, social, governance), nuove rendicontazioni e green loans. Dal mondo della finanza a quello bancario fino all’imprenditoria. Siamo di fronte alla rivoluzione del XXI secolo. 

Una sostenibilità che non si limita all’ambiente, ma che arriva a toccare la necessità di un benessere collettivo. Cosa che l’Onu ha messo nero su bianco nella sua Agenda 2030. La verità, però, è più complessa. Perché, forse paradossalmente, di questi temi si continua a parlare troppo poco. E quando si fa, li si relega alle pagine ambientali che di certo non sono tra le prime. 

Interessante è un’analisi dei motivi dietro a ciò, a partire dalla quotidianità di tutti. E dai pareri che Anna Meldolesi, giornalista scientifica del Corriere della Sera, e Andrea Ghianda, responsabile della comunicazione del think tank italiano Ecco, mi hanno esposto in una conversazione telefonica. 

È ancora considerato un argomento di nicchia, uno scomparto minore – spiega la prima – È un cassetto che si apre solo in occasioni da prima pagina: il rapporto IPCC o qualche rapporto delle Nazioni Unite. Poi lo si chiude in taglio basso a pagina 22 o 23.” I giornali non ne parlano perché interessa poco, o viceversa? È un po’ come chiedersi se sia nata prima la gallina o l’uovo. Perché se è vero che i grandi media ne trattano in modo opportunistico, è altrettanto evidente che l’interesse pubblico per questi problemi non è così alto come si crede. 

Secondo il Sondaggio Speciale Eurobarometro del 20 luglio 2023, in Italia la preoccupazione per l’ambiente viene al terzo posto. Dietro ai conflitti armati e alla situazione economica. L’Italia, vittima di un suo ritardo culturale, è priva di un vero e proprio tessuto di consapevolezza. Il risultato, secondo Anna Meldolesi, è la cronicizzazione del problema. In poche parole “si sa che i problemi ci sono ma non si riesce a fare massa critica.”

Dalla parte dell’informazione, però, è di sicuro presente una “discontinuità nel racconto del cambiamento.” Una narrazione a singhiozzo che ha radici nell’assenza di una tradizione del giornalismo ambientale nel nostro Paese. E che si alimenta dall’eterna fonte della politica, filtro mediatico italiano per eccellenza. Gli stessi temi veicolati nei soliti modi in maniera per di più superficiale. Al massimo si concede il racconto di esempi virtuosi del mondo privato. Ma non in maniera “necessariamente trasparente” ammette Andrea Ghianda. Conseguenza di questa sorta di cantilena è la “fatica climatica”: le notizie green annoiano, stancano.

Come cambiare questa tendenza? Innanzitutto fissare l’obiettivo della comunicazione, che per Anna Meldolesi deve essere “un’alfabetizzazione climatica.” Del pubblico, e dei professionisti stessi. Uscire dal vortice di personalizzazione che lega indissolubilmente gli eventi alle persone. E quindi, tolta la Greta Thunberg di turno dal suo piedistallo, fa cadere tutte le questioni sollevate. Trovare un modo diverso, nuovo, di fare informazione. Rompendo i confini tra i vari giornalismi. Perché “manca la capacità di parlare di clima parlando di economia e di politiche industriali” sostiene Andrea Ghianda. E giocando sulle emozioni dei lettori, non con i dati ma con le storie. Un giornalismo lento, approfondito. Costruttivo.

Ma non è tutto da rifare. Il giornalismo ambientale di buon livello esiste. Soprattutto nei giornali piccoli, dove le pressioni dei grandi gruppi sono più deboli. E dove non esistono le “scatole verdi”, quei contenitori settimanali di notizie con cui le testate sentono di esaurire l’informazione sostenibile. Stando attenti a non scivolare sulla buccia di banana dell’ideologia. “Molti sono convinti che la transizione sia legata ai valori progressisti di estrema sinistra – chiarisce Andrea Ghianda – Il ruolo del comunicatore è proprio andare a smontare quei miti che facilitano la comunicazione polarizzante.” Ruolo ancor più delicato in un mondo social dove tutto, anche la disinformazione, è a distanza di un click.

Dal punto di vista comunicativo, le industrie sono a uno stadio molto più evoluto. Il consumatore cerca sempre di più un prodotto che si avvicini al suo credo, che può comprendere la stessa sostenibilità. Il brand va incontro alle richieste, e costruisce il messaggio attorno a un purpose cioè un sistema di valori. Un ambito quasi all’avanguardia, avendo fatto di necessità virtù. Rimane, però, la macchia del green washing. Soprattutto nei casi in cui i piani di investimento delle aziende non riflettono il loro pubblico impegno verso il green. Una macchia che, secondo Anna Meldolesi, è presente “anche nei giornali, e in maniera subdola.” Come l’esagerazione delle responsabilità dei singoli. “Il problema non è questo, ma il fatto che mancano scelte coraggiose a livello nazionale e sovranazionale.”

Il centro di tutto rimane comunque l’uomo – in questo caso, il comunicatore. Tocca a lui avere il coraggio di alzare gli occhi dal suo orticello. Uscire dalle dinamiche e dagli schemi tradizionali, uscire anche dall’Italia. Comprendere i nessi, cercare di capire. E poi spiegare, fin dove può. Il giornalista, come sostiene Anna Meldolesi, è un essere umano figlio dei suoi tempi. E “se racconta le cose senza aprire gli occhi, finirà per far vedere agli altri ciò che già tutti vedono.