Corporate activism e Gen Z: non fare, ma essere

CORPORATE ACTIVISM: AZIENDE CHE FANNO LA DIFFERENZA

di Carlotta Falbo, studentessa di Strategic Communication, Università IULM

Nato solo nel recente 2018, il corporate activism (o brand activism) prende forma dagli studi di Philip Kotler e Christian Sarkar a partire dalla definizione di social responsability, che viene traslata a livello aziendale.  La cosiddetta CSR non è più sufficiente: l’azione dei singoli non può più essere rivolta verso le pratiche interne dell’organizzazione, ma ciò che si chiede è una diplomazia aziendale che comprenda in profondità le cause a cui tiene maggiormente la comunità a cui ci si rivolge e che costruisca su di esse un’agenda di priorità, basata su principi chiave. 

Già dal 2018 inizia a registrarsi un incremento esponenziale nella quota di consumatori che affermano di dimostrare i propri valori attraverso l’acquisto di specifici brand: il 64% degli intervistati coinvolti nell’Earned Brand Study di Edelman è disposto a scegliere, cambiare, evitare o boicottare un brand in base alle posizioni politiche o sociali che adotta, registrando un aumento del 13% rispetto al 2017. 

Inutile dire come il fenomeno abbia conosciuto una crescita esponenziale grazie a una generazione che diventa sempre più curiosa e studiosa, e quindi consapevole: la Generazione Z. I ragazzi e le ragazze nate tra il 1997 e il 2012 lottano sempre di più per il loro futuro perché riescono a identificarlo in modo più limpido nella loro mente, e questa immagine non è per nulla rassicurante. Nonostante ciò, la paura che sentono non li paralizza, ma li motiva a essere sempre più assertivi e determinati nelle loro battaglie, in cui cercano l’appoggio del settore aziendale. 

Queste sfide sono infatti così grandi che combatterle da soli non basta, considerando quanto i brand e le aziende detengano un potere così grande da andare oltre l’azione del singolo. Le aspettative dei consumatori si sono plasmate nel tempo e si muovono verso la convinzione che il posizionamento delle imprese sia tale da permettere loro di guidare il cambiamento e affrontare le questioni sociali in modo forte: gli strumenti di cui dispongono sono potenti, anche in relazione a quelli del governo, nei confronti del quale c’è invece grande sentimento di sfiducia. Non a caso già nel recente The Power of Gen Z Report il 70% degli intervistati afferma di essere coinvolto in cause politiche o sociali, il quale rappresenta un chiaro segnale per il mondo del business che utilizzare il potere comunicativo e commerciale per fare del bene non è qualcosa di apprezzato, ma di ormai scontato.

 La Generazione Z elude la tipica customer persona definita dal marketing tradizionale. Per questo c’è bisogno di qualcosa di più unico e pragmatico, proprio come loro. Cogliendo questa opportunità, e ormai, obbligazione morale, gli imprenditori e i marketer del mondo di oggi non fanno altro che assicurarsi un vantaggio competitivo: il mondo del business non può più far finta che la voce di questa generazione non esista, perché è diventata così forte che l’unico risultato raggiungibile sarebbe l’autosabotaggio. Studiare e analizzare il fenomeno invece di sopprimerlo è fondamentale, così da comprenderne la portata, abbracciarne ogni sfaccettatura, e arrivare a una collaborazione tra generazioni che non potrà che essere proficua per entrambi.