Corporate activism: gestire le aspettative, conquistare la credibilità

CORPORATE ACTIVISM: AZIENDE CHE FANNO LA DIFFERENZA

di Cristina Camilli, Direttore Relazioni istituzionali, Comunicazione e Sostenibilità, Coca-Cola Italia e Albania

Oltre a essere una sfida per le aziende che scelgono di intraprendere un tale percorso ambizioso, il corporate activism deve essere affrontato con particolare cautela e attenzione dal punto di vista della comunicazione. È essenziale, infatti, identificare la modalità più efficace di gestione delle aspettative, sia interne sia esterne. 

Quando ci si occupa di comunicazione si è consapevoli del livello di scrutinio esercitato da coloro che sono i destinatari di un determinato messaggio o azione di comunicazione, che diventa in questo caso ancora più alto, che si tratti di istituzioni, autorità di regolazione o consumatori, passando per i fornitori, i dipendenti, i media, senza dimenticare gli investitori e altri rappresentanti dell’ambito finanziario, nel caso di una quotata. Uno scrutinio che diventa ancora più rigoroso ed esigente nel momento in cui l’azienda, oltre a portare avanti le proprie strategie di crescita nel nome di valori codificati e condivisi, decide di utilizzare la propria forza comunicativa, facendo leva anche sulla capacità attrattiva e il valore ispirazionale del proprio marchio, per metterla al servizio di cause che ritiene valide e degne di essere perseguite. 

L’ampliamento dei confini comunicativi delle aziende, quando si tratta di tematiche vicine al concetto di transizione ecologica, di tutela dei diritti umani e dell’ambiente lungo tutta la propria filiera, con la garanzia di un approccio etico nel fare business, le pone già quotidianamente di fronte a scelte che non possono essere eluse né affrontate solo a parole. 

Il corporate activism porta però tutto questo a un livello ulteriore di complessità ed è per questo che credo fortemente nell’importanza di analizzare non tanto le modalità con cui questo attivismo viene concretizzato, quanto le aspettative che esso genera. Aggiungo un punto: non solo esternamente, ma anche internamente

Questi sono alcuni degli interrogativi che secondo me è utile porsi: la leadership della nostra azienda è convinta di questa scelta di campo? Ne sono chiare le motivazioni e soprattutto l’impatto che eventuali controversie potrebbero generare in termini di business e di reazione dei consumatori? Siamo pronti ad accettare il rischio di perdere quote di mercato o di sopportare la disaffezione di alcuni gruppi di consumatori laddove la causa che abbiamo deciso di sostenere non sia ritenuta valida da questi ultimi o, in seconda battuta, da decisori pubblici con cui l’azienda interagisce? 

Questo groviglio di aspettative è difficile da dipanare perchè una reazione avversa inaspettata da parte degli stakeholder esterni potrebbe determinare un cambio repentino del grado di accettabilità del rischio da parte dei nostri stakeholder interni, prima ancora che esterni. La scelta di abbracciare tematiche divisive diventa ancora più dirimente se non parte da basi interne solide, con una valutazione razionale e il più possibile spassionata della cultura aziendale, del suo DNA, con una totale coesione e allineamento da parte della leadership e, a cascata, della cultura aziendale in senso più ampio.

La valutazione sulla resistenza agli shock determinati da una scelta ci porta al secondo elemento su cui vorrei riflettere e per cui il ruolo del comunicatore è altrettanto fondamentale: la credibilità. Un altro valore intangibile che ha un peso determinante sul capitale reputazionale che la nostra azienda possiede o, in molti casi, si ritiene possieda misurando le posizioni degli stakeholder che con essa interagiscono o andando a studiare la percezione dei consumatori che ne acquistano i prodotti o i servizi. Se la credibilità è la chiave nel momento in cui un’azienda presenta una strategia di crescita ai propri investitori, propone un’innovazione ai propri clienti o dichiara obiettivi ambiziosi in termini di sostenibilità ambientale, lo è ancora di più nel momento in cui la stessa azienda prende una posizione su una tematica che coinvolge, e in moltissimi casi inevitabilmente divide, la società. 

Una sfida che si tradurrà nella valutazione sempre più intransigente delle sue politiche interne (da quelle di assunzione e promozione alle dinamiche salariali, per esempio) e che potrà ragionevolmente sfociare in accuse pubbliche di incoerenza o di “lavaggio” green, pink o di qualsiasi altro colore. Nella più complessa delle ipotesi, il rischio non è tanto di essere tacciati di un’adesione solo di facciata, quanto di essere ritenuti, da parte di coloro che hanno un’opinione divergente, agenda-setter in ambito valoriale o eccessivamente coinvolti in quella che dovrebbe essere una dinamica di contrapposizione che si svolge soprattutto in ambito politico. 

Questa seconda sfida non passa dunque solo da un’adeguata valutazione preliminare, ma anche da un percorso solido, sicuramente segnato da possibili errori o margini di miglioramento, che consenta all’azienda di conservare la posizione che ha scelto di sostenere anche accettando rovesci momentanei ma cercando, per quanto possibile, di mantenere la barra dritta. In questo caso sarà il comunicatore, non da solo ma in dialogo costante con tutte le altre funzioni e con la leadership dell’azienda, a dover assicurare che tale percorso possa essere ragionevolmente perseguito con successo.

La speranza di fondo del corporate activism, se fatto con convinzione, è d’altronde che l’impegno, non estemporaneo ma continuativo nel tempo, dell’azienda consenta la creazione di un consenso più ampio sulla questione oggetto di dibattito, facilitandone l’accettabilità da parte di strati più ampi della società e, in generale, contribuendo a un miglioramento a beneficio di tutti, anche chi sceglie di mantenere una posizione discordante.