LA POLITICA DELL’ENTERTAINMENT: LA POTENZA DELLE LEADERSHIP IPER PERSONALISTICHE

POLITICA E SOCIAL NETWORK: ETICA, PARTECIPAZIONE E POLARIZZAZIONE

di Ludovico Fois, Consigliere per le Relazioni Esterne e Istituzionali e Responsabile Comunicazione ACI

Da diversi anni, ormai, la funzione della comunicazione politica ha stabilito il proprio primato sulla politica vera e propria. E’ questo un dato di fatto incontrovertibile. La dinamica è nota: la scomparsa delle spinte ideali e ideologiche prima, il conseguente deterioramento dei partiti, ormai trasformati – quando va bene – in mere macchine elettorali, ha favorito l’emersione delle personalità politiche più portate a interpretare, in solitario, i linguaggi della società contemporanea.

In sintesi, vince chi funziona di più, comunicativamente. In Italia lo abbiamo visto in modo molto chiaro. Ciclicamente, si ripropone sempre lo stesso scenario. Negli ultimi anni le leadership di Renzi, Grillo (da esterno), Salvini, Meloni hanno letteralmente trascinato i consensi dei propri partiti in fase di ascesa, talvolta persino in contrasto con i rispettivi apparati. E questa forza endogena, favorita dal non dover rispondere ad alcuna coerenza, ha permesso loro di rimanere mediaticamente centrali, in qualche modo, anche dopo l’acme della propria esperienza di governo o elettorale. Trump, negli Usa, rappresenta l’estremizzazione di questa dinamica: figura sempre più controversa, con numerosi procedimenti giudiziari in corso, “ispiratore” di un assalto che ha perfettamente mimato un tentativo di colpo di Stato, eppure tutt’ora in grado di focalizzare le analisi mondiali sulla politica statunitense, tanto da rendere di fatto le sue scelte future determinanti per le prospettive di tutto lo scenario Usa. Una forza tutta personale la sua, che risiede appunto in un massiccio potenziale comunicativo; qualcosa che gli ha consentito di rivaleggiare, da pari, persino con giganti come il suo stesso partito, o con la vecchia proprietà di Twitter.  

La forza di queste leadership iper personalistiche è quella di dare l’impressione di essere più vicine alla gente. Sembrano disintermediare; bypassano gli apparati, i formalismi, le burocrazie. Niente di nuovo, per carità. Nella storia della politica, in tutti i Paesi, i grandi leader carismatici, quelli che hanno lasciato un segno vero, hanno quasi sempre mostrato di essere anche animali comunicativi perfetti, o quasi.

Ma in questa fase storica, il combinato disposto con l’esplosione dell’era dei media digitali, ha portato questo processo a un altro livello. I social media hanno favorito enormemente questa evoluzione (o involuzione). Perfetto veicolo della personalizzazione della leadership, secondo un micidiale mix tra la possibilità di targetizzare il messaggio alla singola persona, ingaggiandola in maniera permanente, e la capacità di generare quasi istantaneamente delle web fanbase che agiscono in modo militare, dove il pensiero critico è totalmente espunto. I social media offrono a questa tipologia di leader l’opportunità di disporre per i propri elettori delle call to action digitali e dunque facili da praticare, così da cementare i rispettivi convincimenti blindandoli in gruppi di pensiero omologo. A rafforzare questo schema la fibrillazione geopolitica mondiale, che fa percepire (erroneamente) i regimi con le ultra leadership, tendenti alla dittatura, come più forti, efficaci e rassicuranti.

Detto questo, resta da chiedersi se l’emersione tanto marcata di tali dinamiche funzioni davvero in termini di convincimento, profondo e a lungo termine, degli elettori; se contribuisca ad animare i processi democratici, le spinte di attivismo e, più in generale, se ravvivi lo spirito civico e unitario. La risposta a cui abbiamo assistito in questi anni, non appare certamente positiva. 

Le evidenze parlano in senso opposto. Cresce la sfiducia nei processi democratici, peggiora la qualità percepita della classe dirigente e in una non insignificante fetta dell’opinione pubblica matura sempre di più il convincimento che il sistema politico non sia più in grado di dare risposte incisive ai problemi concreti. La sensazione diffusa tra tanti cittadini è che ci sia sempre un “altrove’’, un altro livello decisionale (politico, lobbistico, finanziario o qualsivoglia), ad ogni modo sempre ulteriore e irraggiungibile, le cui scelte ricadono sulle vite dei cittadini. Resta inoltre preoccupantemente alto il numero di coloro che si astengono dal voto. 

Si è infine assistito su scala globale a fenomeni antistorici e regressivi: la Brexit in Inghilterra, l’avvento di movimenti antisistema e finanche azioni violente come la marcia sul Campidoglio o la guerriglia a lungo termine dei gilets jaunes. Le motivazioni profonde sono molteplici, certo, ma non si può non ravvedere una forma di matrice comune, figlia di una crescente polarizzazione. Ed è proprio questo il problema. La dinamica attuale sembra funzionare sulla base solamente del continuo rilancio, di una esasperazione. La formula è ben nota. La comunicazione politica tende sempre più a rappresentarsi come un format di entertainment. Il cittadino viene spinto a schierarsi, per una posizione o il suo contrario, faziosamente e acriticamente. Si segue la leadership del capo e la sua agenda di temi, modellata con cura sulle questioni più posizionanti offerte dall’attualità.

Una dinamica più “calcistica” che politica, da tifosi incondizionati, ai quali sta bene anche vincere con un rigore rubato piuttosto che da aderenti a un progetto sociale ed economico che si battono nell’aspirazione di una società migliore. Se è così, assisteremo a sempre più rapidi capovolgimenti delle leadership. Questo almeno fino a quando i tifosi, stufi e insoddisfatti per uno spettacolo sempre più mediocre, decideranno di tornare a “giocare personalmente sul campo” lasciando gli spalti.