POLITICA ON DEMAND: LA POLITICA A PUNTATE 

POLITICA E SOCIAL NETWORK: ETICA, PARTECIPAZIONE E POLARIZZAZIONE

Intervista a Lorenzo Pregliasco, politologo e Fondatore Quorum Youtrend

Politica Netflix, il termine coniato per descrivere la politica nell’era digitale. Ma cosa significa?

“Significa, se vogliamo, un nuovo modello di partecipazione politica e di comunicazione della politica. Il termine Politica Netflix rappresenta due aspetti: da un lato rimanda al mondo dell’intrattenimento e della comunicazione pop, perché si fa riferimento a un ecosistema nel quale molti soggetti del mondo dell’intrattenimento – i famigerati influencer: attori, cantanti, creator digitali entrano nel dibattito pubblico; dall’altro proprio per come funziona Netflix (o  qualsiasi strumento di streaming, da Spotify a Amazon Video), con la logica on demand: queste piattaforme funzionano attraverso una scelta diretta dell’utente che ha una varietà di titoli ma sceglie direttamente quale episodio o serie vedere, quale canzone o podcast ascoltare. Lo fa senza dover ‘subire’  un palinsesto o una programmazione completa come proposto dai media tradizionali (tv, radio). La logica on demand è una buona analogia per interpretare come si forma la discussione politica oggi, soprattutto per le fasce più giovani: non c’è una adesione a un palinsesto, o programma, onnicomprensivo, deciso da altri. Non c’è l’appartenenza a un partito, piuttosto l’attivazione verso una singola causa, una singola battaglia e  un singolo tema che ci interessa. Questo è molto evidente se guardiamo a ciò che è accaduto negli ultimi anni in Italia: un cambiamento dell’agenda pubblica e del dibattito politico tale per cui i temi oggetto di discussione non sempre nascono perché proposti e portati avanti da un partito, ma perché sui social nascono mobilitazioni intorno a una singola questione che va oltre i partiti. In questo senso la politica Netflix descrive questo nuovo ecosistema, nel quale il dibattito pubblico è molto più frammentato e i soggetti nuovi, come gli influencer, possono dar forma al dibattito pubblico.”

Possiamo parlare di un input bottom-up?

“Non sempre la proposta viene dal basso. Per esempio, spesso gli influencer sono i nuovi intermediatori. Si parla spesso di disintermediazione, la perdita di quel ruolo di filtro che hanno avuto per molti anni i media tradizionali (giornali, tv, radio) e le organizzazioni sociali. In questo contesto possiamo parlare di tematiche dal basso ma spesso gli influencer come nuovi soggetti di intermediazione si fanno promotori di campagne fungendo a loro volta come piccoli media, piccole testate giornalistiche. In questo senso, quindi, non sempre sono campagne che nascono veramente dal basso.”

Prima dell’exploit dei social media, la comunicazione dei partiti verso i propri elettori e potenziali tali avveniva tramite mezzi di informazione tradizionali. Oggi i canali di informazione sono molteplici e il dibattito si sviluppa e si sovrappone su più piani. Come hanno cambiato i social i confini della discussione?

“Tre i modi principali di come i social hanno cambiato l’ecosistema dell’informazione e quindi l’opinione pubblica. In primis, hanno reso l’agenda pubblica – il menù della conversazione pubblica – più imprevedibile. Se fino a non molto tempo fa un tema per entrare nel dibattito pubblico doveva nascere dalla politica, da un grande giornale, dalla televisione, oggi un tema può entrare nel dibattito nascendo e viralizzandosi sui social. Questa è una grossa differenza che rende più permeabile l’agenda pubblica. In questo scenario, il ruolo dei gatekeeper tradizionali – i guardiani del dibattito pubblico – è stato ridimensionato, perché oggi attraverso i social fanno il loro ingresso nella discussione questioni che pochi anni fa non avrebbero avuto la possibilità di entrare. 

Inoltre, i social hanno frammentato molto la fruizione dell’informazione. L’ecosistema fatto da partiti, relativamente pochi giornali e pochi canali televisivi era un meccanismo nel quale c’era una dieta mediatica abbastanza condivisa; le trasmissioni televisive o i telegiornali avevano una tale impatto sull’opinione pubblica che, in un certo senso, erano il luogo nel quale si formavano la notizia e l’informazione dei cittadini. Oggi invece, con la pluralità dei canali resa possibile dai social, tutto ciò non esiste più. Soprattutto nelle generazioni giovani, l’informazione si traduce in molte cose diverse: un video su Youtube di un divulgatore scientifico, un carosello su Instagram di un esperto di geopolitica, un podcast, una clip di telegiornale o di un reportage su Twitter. E’ chiaro che questa frammentazione restringe molto il terreno comune tra le persone, oggi è più improbabile che due persone di età retroterra culturale diversi si informino nello stesso modo. La frammentazione che ne consegue è una delle spiegazioni dell’ecosistema della politica Netflix: siccome è più frammentato il modo in cui ci si informa, siccome è molto più frammentato il modo in cui si forma un’opinione, ecco che diventa più probabile che ci si interessi a una singola questione piuttosto che a un palinsesto generale. 

Una terza matrice di cambiamento, non esclusiva dei social: la polarizzazione – con prese di posizione nette talvolta manichee, premiate da come funzionano le piattaforme digitali – e una grande accelerazione del ciclo della notizia tale per cui quando qualcosa entra nel dibattito pubblico produce la sua fiammata di attenzione che dura solo un giorno, ma in quel giorno se non ci si espone sul tema si rimane fuori dal mondo.” 

Secondo lei c’è la necessità di governare questo nuovo ecosistema o si va verso una autoregolazione?

“Credo sia impossibile regolarlo se non comprimendo la libertà di espressione e di informazione. E’ più probabile che andrà ad autoregolarsi, mantenendo profili di criticità e smussandone altri. Fino a metà degli anni Settanta in Italia c’era un solo canale televisivo, controllato dallo Stato. Instagram ha raccolto un miliardo di utenti solo nel 2019, TikTok nel 2021.  È abbastanza indicativo di quante cose sono cambiate, il “mondo di prima” non potrà più tornare. Le forme di regolamentazione, per carità, possono sì agire sui singoli aspetti di privacy, su singole questioni, ma difficilmente possono cambiare la dinamica di fondo; sono  linguaggi diversi, non si può regolamentare con strumenti vecchi qualcosa che nel frattempo è già andato oltre.”

C’è un problema di autorevolezza e di veridicità delle informazioni trasmesse attraverso i social anche dalle nuove figure di intermediatori come gli influencer – personaggi pubblici de facto?

“Sì, certamente. È uno dei punti critici di questo nuovo modello della politica on demand. Ovviamente dipende, cioè ci sono personalità pubbliche, creator e influencer, ma anche giornalisti con molto seguito, esperti e divulgatori molto informati e accurati che spesso forniscono un’informazione migliore di quella di mezzi di informazione tradizionali; tanto che frequentemente sui social si trovano contenuti e approfondimenti di qualità molto alta, nettamente migliori di quelli proposti mediamente in tv o sui quotidiani. Dall’altra parte però si può creare confusione: un influencer che di professione fa il cantante o lo sportivo, e che quindi ha una elevatissima competenza nel suo campo, non necessariamente è adeguatamente informato su tematiche ambientali, sociali e politiche; quando una figura di questo tipo interviene dispiegando la forza della sua community su un tema non sempre lo fa in modo attento, preciso, accurato, consapevole. 

C’è poi una preoccupante tendenza alla semplificazione: non solo perché sono persone che generalmente – ed è legittimo che sia così – non sono esperte del tema, ma anche perché la semplificazione binaria, parlare di temi che permettono di schierarsi a due antipodi, premia sui social. Però questo è un approccio che impoverisce il dibattito pubblico e che polarizza la conversazione pubblica. 

Mi fa riflettere una cosa che mi capita quando parlo di questi temi a lezione: se chiedo se vedono di buon occhio gli influencer che intervengono sui temi politici, in genere la gran parte degli studenti mi risponde di sì. Ma poi, per esempio negli Stati Uniti, c’è tutto un mondo anti sistema popolato di influencer molto seguiti che sposano o promuovono bufale, teorie complottiste o razziste. Ecco, anche loro sono influencer che giocano secondo le regole della “politica Netflix”, ma non piacerebbero nella stessa misura ai miei studenti. Credo sia solo questione di tempo perché anche in Italia arrivino questo tipo di figure, che faranno riflettere di più su quanto è un bene che una persona con enorme seguito possa intervenire orientando inevitabilmente l’opinione dei suoi follower su temi di interesse pubblico.”

I social garantiscono un dibattito equo e quindi a 360 gradi oppure c’è il rischio che molte informazioni, molte opinioni, siano one sided e non tengano conto dell’altra faccia della medaglia?

“Nessun ecosistema informativo può essere al 100% equo, equilibrato e ampio nel senso di rappresentazione plurale di ogni punto di vista; non lo sono i social, ma tantomeno lo sono i giornali e i telegiornali. Credo che con i loro difetti, i social ospitino una pluralità di punti di vista senza precedenti. Oggi attraverso i social si può essere esposti a una pluralità di punti di vista inimmaginabile pochi anni fa. La domanda è se un bene essere esposti su ogni tema a una pluralità infinita di punti di vista e idee diverse. Nella pluralità delle informazioni e opinioni si mescolano disinformazione e violenza verbale; il pluralismo per sua natura non è controllabile e include anche fonti di inquinamento del dibattito pubblico. Elemento positivo dei social, comunque, è che permettono a più voci di entrare in questa grande conversazione collettiva, a più punti di vista di essere letti, ascoltati e condivisi”

Come si inserisce la politica in questo nuovo ecosistema?

“Non tutti si inseriscono allo stesso modo, ci sono leader diversi, con stili diversi. Sicuramente alcuni esponenti politici, con le difficoltà di un ecosistema che cambia continuamente, fanno un buon lavoro di comunicazione sui social, informano sulle questioni di loro competenza, comunicano quello di cui si occupano, danno delle chiavi di lettura sull’attualità. Altri invece approfittano dell’iper-semplificazione alimentando una polarizzazione estrema. 

Ci sono poi incroci social e non social tra politici e influencer, che talvolta incrociano le armi (pensiamo a Chiara Ferragni e Matteo Renzi: lì fu molto visibile l’estrema semplificazione populista da parte di Ferragni). Bisogna perciò tenere d’occhio come la politica, e chi fa politica, condivide il palcoscenico con questi nuovi intermediari. 

Altre volte ancora è proprio la politica a sperimentare sui social, più fuori dall’Italia che nel nostro Paese: campagne politiche sviluppate su twitch, incroci tra propaganda politica e videogiochi, elementi che dimostrano come nel mondo ci sono politici e consulenti che pensano a rendere la politica comunicabile nell’ecosistema informativo di oggi. È molto più complicato comunicare la politica oggi di quanto non fosse vent’anni fa, perché appunto, i canali che devi presidiare e sui quali veicolare il messaggio sono esplosi, ciascuno con le sue regole e il suo pubblico. Fare comunicazione politica o istituzionale oggi ha complicità gigantesche rispetto al passato.”