POLITICA PHYGITAL: LA FORZA DEL BRAND DIGITALE

POLITICA E SOCIAL NETWORK: ETICA, PARTECIPAZIONE E POLARIZZAZIONE

Intervista a Luigi Di Gregorio, Docente di comunicazione, Università degli Studi della Tuscia

La politica si fa digitale. O meglio, la politica si adatta alle nuove tendenze offerte dalla digitalizzazione dei sistemi di informazione. Quali sono i vantaggi di questa trasformazione per gli esponenti politici?

“La transizione digitale offre numerose opportunità agli attori politici. La prima, molto nota, è quella della cosiddetta disintermediazione: i profili social permettono di parlare direttamente a grandi pubblici senza passare dalla tradizionale mediazione della stampa. La seconda ha a che fare con la possibilità di segmentare i pubblici e di conseguenza di targetizzarli: i post sui social possono cioè essere mirati a specifici cluster di cittadini-elettori in base alle loro caratteristiche socio-demografiche e alle loro intenzioni di voto. Ciò chiama in causa la data analysis. Se, fino a ieri, segmentazione e targetizzazione erano fatte attraverso i sondaggi, oggi si possono fare con più precisione analizzando i comportamenti degli utenti sul web. Se i sondaggi misurano le opinioni – e le opinioni cambiano spesso, oltre a non essere sempre “sincere” – l’analisi dei comportamenti sul web misura, appunto, comportamenti. E questo la rende potenzialmente più completa ed affidabile.”

Sistemi di informazione che oggi non sono più solo intermediari tra istituzioni e cittadini, tra politica ed elettori. Sono invece spazi virtuali in cui si forma e si plasma l’opinione pubblica in cui ognuno assume un certo grado di responsabilità nei confronti degli altri. In questo senso, la politica è responsabile?

“Questo dipende molto dai ruoli. La politica contemporanea è in ‘campagna permanente’, il che vuol dire che si comporta come se si votasse ogni giorno. Ciò ovviamente alza il tasso di polarizzazione e spesso anche di ‘stile populista’. In democrazia, chi vince le elezioni è sempre responsabile verso l’elettorato – accountable, per dirla in inglese; tuttavia, chi fa opposizione spesso è libero di ‘surfare’ sull’opinione pubblica e di cavalcare ogni notizia (vera o falsa) pur di indebolire la maggioranza. Solitamente non si fa molti scrupoli nel farlo, ossia non valuta più di tanto le conseguenze dei messaggi che manda. Si può migliorare questo aspetto? In teoria sì, ma in pratica è più facile a dirsi che a farsi. La politica è gruppista per definizione, si fonda sulle identità e sul ‘noi contro loro’. Su piattaforme il cui modello di business premia i contenuti polarizzanti – perché mobilitano e generano più engagement – questo produce un effetto palla di neve, un’amplificazione di quei processi. Ma in questo caso, prima che tecnologico, è un problema biologico ed evolutivo. Siamo fatti così. E se siamo fatti così è difficile chiedere alla politica, così come alle grandi piattaforme, di cambiare rotta.”

In politica, come nella vita, vince chi meglio si adatta alle trasformazioni attorno a sé. Chi, secondo lei, è stato in grado di cogliere le opportunità della comunicazione in rete tra i leader di partito? 

“Sono tanti i leader che hanno saputo sfruttare gli strumenti digitali. In Italia, oggi la regina della rete è Giorgia Meloni, ma nel recente passato abbiamo visto ottime performance di Salvini, di Conte, di Renzi, di Grillo alle origini del Movimento 5 Stelle. Dobbiamo sottolineare una cosa, però. I leader politici ormai sono veri e propri brand personali e la loro forza – anche digitale – dipende dalla forza del brand. Ciò significa che si può essere abilissimi ad adattarsi alle trasformazioni tecnologiche, ma se non si è credibili e non si ha un’offerta politica in grado di catturare l’attenzione e generare consenso, non si cresce neanche sui mezzi digitali.”

Ma come si fidelizza l’elettorato online? Tenendo conto della forte volatilità causata proprio dal contesto sempre mutevole. 

“Questo è il sacro Graal della comunicazione politica di oggi. I cicli di leadership sono sempre più brevi e il brand dei leader si consuma in tempi sempre più rapidi. L’inseguimento delle oscillazioni continue dell’opinione pubblica fa sì che nel medio periodo la credibilità venga meno. In più, sparisce presto l’effetto novità che ogni nuovo leader incarna: ci stanca e ne chiediamo altri, per una specie di logica ‘usa e getta’ che accomuna sempre più gli elettori ai consumatori. Come se ne esce? Sicuramente riducendo la sovraesposizione mediatica, perché stanca presto ed espone a continue contraddizioni e riposizionamenti. Tuttavia, non basta per arrivare a un elettorato fidelizzato. Forse, guardando al mondo corporate, quello che manca ai brand politici di oggi è il purpose, un credo stabile e coerente che possa fidelizzare nel lungo periodo. Ma manca proprio perché il lungo periodo sembra sparito dalla politica in campagna permanente. E dunque siamo in un vicolo cieco, la soluzione non sembra facile da trovare.”

Ci stiamo muovendo (inconsapevolmente ma inevitabilmente) verso una democrazia sempre più digitalizzata?

“Ci stiamo muovendo verso una vita digitalizzata. O meglio phygital, come si usa dire in ambito di marketing. O se vogliamo citare Luciano Floridi, onlife. Ciò vuol dire che non ha più senso distinguere tra vita online e offline, sono perfettamente ibridate e miscelate. Questo ovviamente comporta una maggiore attenzione al flusso e alla qualità delle informazioni che circolano online. Tra deep fake e intelligenza artificiale, ormai è possibile vedere davvero di tutto. Servirà un allenamento, una media literacy molto più alta di quella attuale. Dobbiamo essere consapevoli, tanto delle potenzialità che offre il digitale (con i rischi annessi), quanto delle caratteristiche della mente umana, per regolare meglio la nostra interazione con dati e informazioni con cui veniamo a contatto. La sfida digitale è ricca di opportunità, ma va affrontata prima di tutto studiando. A partire proprio dallo studiare noi stessi.”